Del nostro profondo disgusto per Assad e della nostra ferma contrarietà ad ogni retorica che lo sostenga in nome di un presunto anti-imperialismo filo-russo abbiamo già detto. Ci sembra però necessario, ora più che mai, di fronte alla conquista de facto di Aleppo da parte dei lealisti, eliminare ulteriori elementi di confusione: la presa della seconda città siriana da parte del regime non significa la fine della guerra, ma sicuramente è un importante passo avanti verso la sua conclusione a favore di Assad; questo impone una volta di più di avere chiaro il contesto.
Non è una buona notizia e non lo è soprattutto per le migliaia di civili di Aleppo est (controllata dalle opposizioni) che hanno subìto i bombardamenti indiscriminati dell’aviazione russa, così come l’assedio per fame di questi mesi, e che ora si troveranno ad affrontare probabilmente la violentissima repressione di un governo che ha rischiato di cadere ed ora si sente vicinissimo alla salda riconquista del potere. La nostra solidarietà umana e politica va appunto ai civili. Lo stesso non possiamo dire per il (sempre meno) variegato fronte armato anti-Assad riunito sotto il Consiglio rivoluzionario siriano: da quando è scoppiata la guerra civile nel marzo 2011, le componenti laiche e socialiste (in parte rappresentate dal Free syrian army – Fsa) presenti nel fronte ribelle si sono progressivamente ridotte, fino a pressoché scomparire, fagocitate dalle ben più aggressive e meglio equipaggiate milizie jihadiste, prima fra tutte Jabhat Al-Nusra (ex componente siriana di Al Qaeda, oggi ribrandizzata in Jabhat Fateh al-Sham), sostenute dall’asse sunnita della regione.
A guardare la cronologia del conflitto siriano, queste componenti non jihadiste e laiche hanno abbandonato progressivamente il campo per poi unirsi a più riprese alle milizie curde Ypj/Ypg in Rojava: pezzi dell’ex Fsa hanno formato prima un’alleanza di supporto al Rojava assediato da Daesh chiamata Euphrates Volcano, successivamente sono confluite nei battaglioni misti delle Sdf (Syrian democratic forces), principale organizzazione coordinata di milizie non curde che combattono con le Unità di difesa del popolo e delle donne. Di queste brigate ex-Fsa, segnaliamo in particolare Jaysh al-Thuwar.
La peculiare posizione del Partito dell’unione democratica (Pyd, formazione sorella del Pkk curdo-turco) fin dall’inizio della guerra è stata chiara: approfittando del vuoto di potere determinatosi nel nord della Siria, a maggioranza curda, si sono sollevati contro le poche truppe lealiste rimaste e hanno preso il controllo del territorio, rifiutando (caso unico) l’alleanza con qualunque gruppo dell’opposizione. Questo ha determinato la prima battaglia di Kobane, precedente di due anni a quella iniziata a settembre 2014 contro Daesh, quando Al Nusra e Fsa attaccarono congiuntamente la città sperando di prenderne il controllo, ma venendo respinte. Da allora la forma di autogoverno in Rojava, vista la complessità della composizione sia etnica che politica del territorio, è stata improntata alla convivenza: consapevoli di una eterogeneità che non avrebbe permesso facilmente l’instaurazione di un governo nazionale strettamente curdo e per evitare l’estendersi della guerra civile anche alle città liberate del nord, sono in questo modo riusciti a concentrarsi sui processi rivoluzionari dell’autonomia democratica.
Nelle zone liberate hanno convissuto milizie armate di diversi gruppi, ognuna con il controllo su alcune parti di città, cercando progressivamente di creare coordinamenti politici generali. Questo è stato il motivo per cui la resistenza del Rojava è cresciuta in questi anni: dalla convivenza si è passati alla collaborazione, fino all’alleanza e al governo collegiale di curdi, arabi, assiri, turcomanni e così via. Gli unici esclusi sono sempre stati i comandi militari lealisti.
Il caso più famoso è stato Qamishlo, la città sorella di Nusayibin in Turchia, teatro nel 2004 di un massacro di curdi da parte dell’esercito e della polizia assadiana, episodio che contribuì all’affermazione del Pyd (fondato nel 2003) e alla preparazione di quell’insurrezione che 8 anni dopo avrebbe preso il potere. Qui la convivenza con le truppe assadiane è durata fino all’aprile 2016, quando le tensioni accumulate sono esplose in scontri armati terminati solo con un una tregua per la quale la presenza del regime – che pure mantiene il controllo di alcune aree della città – è stata significativamente ridotta, impegnandosi a non interferire nei processi dell’autonomia democratica. Da allora, comunque, il conflitto con Assad è ripreso in maniera più decisa, in particolare nell’agosto di quest’anno, nelle settimane precedenti all’invasione turca denominata Euphrates Shield (attuata con la copertura sul campo delle brigate jihadiste ufficialmente parte del Fsa).
Più complessa la situazione fuori dal Rojava e in particolare, ma non solo, ad Aleppo, dove vige la regola dell’asimmetria assoluta. Alcuni esempi: negli scontri scoppiati tra Ypj/Ypg e Sdf da una parte ed esercito turco dall’altro, particolarmente duri sono stati quelli per la liberazione della città strategica di Al-Bab, primo obiettivo dichiarato di Euphrates Shield per impedire la continuità territoriale del cantone di Afrin con la città di Manjbi e da lì con il resto del Rojava; in quel caso, alcune brigate interne alle Sdf (tra cui Jaish al-Thuwar) hanno dichiarato di non voler combattere contro il Fsa (di cui facevano in origine parte, ma che adesso appoggiava le truppe turche in funzione anti-Assad); qui le Sdf hanno ricercato l’alleanza con un’altra formazione armata anti-turca, il Syrian national resistance (Snr), considerata non ostile ad Assad e nata negli ultimi mesi per combattere le truppe di Ankara e i loro alleati in territorio siriano.
Caso a sé è invece il quartiere a maggioranza curda di Aleppo, Sheikh Maqsoud, dove la popolazione, pur tra le mille difficoltà imposte dalla guerra, ha istituito un proprio autogoverno sul modello dell’autonomia democratica. Questa indipendenza sia dal regime che dalle opposizioni, se da un lato ha significato una “neutralità” nella guerra in corso, dall’altro ha portato il quartiere – durante alcune fasi del conflitto – ad esser bersaglio di entrambe le fazioni, compresi bombardamenti indiscriminati sui civili residenti attuati dallo schieramento anti-Assad. Questo non ha comunque impedito di accogliere a Sheikh Maqsoud molti profughi provenienti da altre aree della città, sia sotto controllo lealista che dei ribelli. Dal quartiere curdo, poi, attraverso corridoi aperti dalle Ypj/Ypg, molti profughi sono stati poi fatti sfollare da Aleppo senza discriminazioni, quando tutte le forze armate in campo hanno avuto invece come primo obiettivo quello di fermare l’esodo dei civili, terrorizzarli per impedire sommosse e tentativi di fuga, in modo da utilizzarli come scudo e strumento di pressione nei confronti del nemico sul campo e dell’opinione pubblica internazionale (senza peraltro riuscirci, data la gelida indifferenza di questa). Benché le Ypj/Ypg abbiano essenzialmente svolto ad Aleppo una funzione militare meramente difensiva rispetto a Sheikh Maqsoud, le opposizioni siriane hanno duramente accusato le formazioni curde di aver stretto un accordo con il regime, senza contare che l’istituzione di tregue in alcune zone della città, in seguito a combattimenti avvenuti, ha avuto anche la funzione di aprire corridoi di uscita per i civili, tanto che oltre 6000 persone hanno avuto così la possibilità di fuggire dalla città sotto doppio assedio.
Questa è la situazione, complessa, contraddittoria, asimmetrica della guerra civile siriana. Da questo punto di vista, quindi, se riteniamo doveroso scendere in piazza contro i crimini perpetrati ad Aleppo sulla popolazione, ribadiamo che per quel che ci riguarda l’unica opzione rivoluzionaria che rimane in campo e che sosteniamo è quella rappresentata dal Rojava autonomo e democratico e dalla coalizione multietnica che si sta formando sotto le sue bandiere.
Proprio Aleppo ha infatti ampiamente dimostrato l’esaurimento di ogni spinta rivoluzionaria interna alle opposizioni siriane: la “rivoluzione siriana” è finita sulla pelle del popolo che nel marzo 2011 si era rivoltato contro uno dei regimi militari e fascisti più feroci della regione, fatta a pezzi dai giochi incrociati delle potenze regionali e internazionali, che ne hanno mantenuto solo la struttura formale e militare.
La guerra proseguirà ancora a lungo: aree del paese come Idlib sono tuttora sotto controllo delle opposizioni, le cui milizie stanno già in parte rifluendo da Aleppo dirette verso i territori controllati da Ankara; mentre Daesh mantiene ancora una sua significativa presenza che dovrebbe però drasticamente ridursi se l’operazione curda su Raqqa (capitale siriana del Califfato) andrà a buon fine. Dall’altro lato, invece, vi è appunto il Rojava e il significativo dinamismo che comunque il conflitto e i vuoti di potere hanno scatenato per tutta la Siria, espressione di quelle originarie rivendicazioni sociali e aspirazioni di protagonismo politico, ancora presenti nonostante la ferocia di questi quasi 6 anni di guerra civile. Proprio in questo momento il confederalismo democratico rimane l’unica opzione rivoluzionaria e di pace di fronte al rigurgito del regime di Assad, l’invasione turca sostenuta sul campo dalle opposizioni e nelle conferenze internazionali dall’occidente e alla persistente presenza di Daesh.