Cos’è successo la scorsa settimana tra Turchia, Bakur e Rojava?
Mercoledì un’autobomba ha colpito nel cuore del distretto militare di Ankara un convoglio militare, uccidendo decine di soldati. Dopo aver immediatamente identificato il responsabile nel Pyd curdo-siriano in collaborazione col Pkk, è arrivata pochi giorno dopo la rivendicazione da parte dei Tak (formazione separatista curda fondata nel 1993 e in rottura col Pkk dal 2004).
Il giorno successivo sulla strada Diyarbakir-Lice un’altra bomba ha colpito mezzi militari turchi impegnati nelle operazioni di massacro contro la popolazione: in questo caso, a rivendicare l’attacco è stato il braccio giovanile del Pkk.
Nel frattempo non si ferma il tentativo di genocidio nelle città curdo-turche: mentre Cizira è ridotta ad un cumulo di macerie, giunge anche da Amed la notizia di un altro scantinato in cui circa 200 persone sono rimaste bloccate e stanno morendo una ad una, per mano dell’esercito turco.
Sul fronte siriano, invece, le milizie rivoluzionarie Ypj/Ypg proseguono l’avanzata non solo contro Daesh, ma anche contro i gruppi ribelli considerati legittimi dalla Turchia e dalla comunità internazionale (a differenza del Pkk), in quanto anti-Assad, senza considerare le parentele con Al Qaeda e l’universo jihadista riunito sotto Daesh: è di ieri la notizia della liberazione di Shaddadi, importante snodo nel traffico di petrolio della regione. Contemporaneamente, milizie curde si sono avvicinate a Mosul in Iraq (prendendo in contropiede quindi sia i Peshmerga, sia i loro alleati turchi). Tutto questo sotto i bombardamenti di Ankara contro postazioni curdo-siriane al confine e campi base Pkk nel nord Iraq. Infine, è di giovedì la notizia che decine di mezzi militari turchi hanno sconfinato in Rojava, nel cantone di Efrin (l’ultimo ancora in mano a formazioni anti-curde), probabilmente come deterrente alla campagna militare che Ypj/Ypg lanceranno in primavera.
Questi i fatti. Ma politicamente parlando cosa si può dire?
Anzitutto che è ormai sempre più stretto il nesso tra la guerra interna in Turchia e quella esterna, tra Siria ed Iraq. Possiamo infatti identificare finora tre fasi nella politica regionale di Ankara:
1)la prima coincide con la strategia della tensione apertasi con la strage di Dyiarbakir del 5 giugno e con quella più sanguinosa al Centro Amara di Suruç il 20 luglio 2015; portata avanti con la rottura della tregua col Pkk e culminata nell’attentato di Ankara del 10 ottobre, contro la manifestazione delle sinistre e dei sindacati “Pace, lavoro, democrazia”. A contorno della tattica stragista, in estate abbiamo assistito a veri e propri pogrom nei quartieri di immigrati nelle città occidentali del paese (curdi su tutti, ma anche siriani e palestinesi) e assalti squadristi contro sedi dell’Hdp e giornali delle opposizioni. I coprifuoco di settembre e ottobre, la violenza di cui anche noi siamo stati testimoni in quelle settimane trovandoci sul posto, non sono stati che la premessa della guerra interna aperta che sarebbe seguita.
2) Dopo la vittoria elettorale dell’1 novembre, ha intensificato le operazioni nelle regioni curde dell’est con coprifuoco ininterrotti che ormai durano da più di due mesi, stragi di civili, città ridotte a cumuli di macerie. Una violenza genocida inaudita, nel silenzio della comunità internazionale che nel frattempo ha rinnovato l’appoggio ad Erdogan in cambio dell’appalto sulla “crisi dei profughi”. A resistere sono poche centinaia di combattenti delle forze dell’autodifesa, giovani e giovanissimi, che provano a tenere testa alla terza forza militare della Nato. I guerriglieri del Pkk, per il momento, proseguono le operazioni nelle campagne e sui monti: un dato di fatto che ci fa presumere che finora le truppe di Erdogan non hanno ancora affrontato il vero esercito di liberazione curdo, con tutta la sua potenza di fuoco. Perchè il Pkk non è intervenuto direttamente nelle città? Possiamo immaginare tre motivi:
a) la volontà di non andare alla guerra totale, dall’esito fortemente incerto sia per la popolazione che per la guerriglia;
b) i molti fronti aperti nella regione, la necessità di consolidare le conquiste in Siria e di tenere una posizione in Iraq, sia rispetto ai Peshmerga sia a Daesh;
c) il fatto che, nelle città, siano le milizie dell’autodifesa ad agire e resistere. Se la situazione dovesse peggiorare ulteriormente, non sappiamo prevedere i possibili esiti.
3) Maggiore interventismo nei conflitti al confine: non più solo appoggio a Daesh e ai gruppi islamisti anti-Assad, ma bombardamenti contro Ypj/Ypg, sconfinamenti di truppe in Rojava, invio di soldati in Iraq a sostegno del governo autonomo di Barzani. Sul fronte diplomatico, invece, l’ostilità aperta verso la Russia, i veti imposti ad Europa e Stati Uniti nelle conferenze internazionali circa il ruolo dei curdi e, infine, il nuovo asse con l’Arabia Saudita in funzione anti-Assad e anti-Iran.
Mentre, quindi, si dichiara che le operazioni nell’est del paese stanno per cessare (mentre in realtà prosegue l’imposizione di coprifuoco h24 e i bombardamenti di abitazioni civili), mentre la stretta autoritaria interna è sempre più forte, la svolta nazionalista e militarista di Erdogan cerca un suo compimento nella ricerca di un casus belli per intervenire apertamente in Rojava (anticamera di altre guerre); in secondo luogo, si vuole di fatto neutralizzare ogni possibile opzione politica in patria, dove l’Hdp risulta sempre più esautorato, represso, criminalizzato e isolato.
Soprattutto adesso che il governo autonomo del Pyd e le sue milizie Ypj/Ypg stanno avanzando su tutti i fronti, ottenendo importanti risultati sul campo e consolidando la ricostruzione dei cantoni liberati, dove concretamente si sta costruendo una società di liberi ed eguali, progetto di democrazia radicale, sovversivo per i molteplici interesse geopolitici nella e sulla regione. E qui permetteteci un altro commento: nella cosiddetta sinistra internazionalista ci sono numerosi detrattori e critici del progetto curdo-siriano, per opposti motivi. Infatti, da un lato sono molti i neostalinisti, nostalgici che in nome di una russofilia fuori tempo massimo sostengono che il “vero soggetto rivoluzionario” della regione è il governo di Assad e criticano l’alleanza stretta tra Pyd e aviazione Usa sul fronte orientale, contro Daesh.
Dall’altro, invece, sono i sostenitori del Free Syrian Army della prima ora che, senza essersi accorti che il loro punto di riferimento non solo non esiste più, ma ha sempre preferito stringere alleanze con gruppi come Al Nusra in virtù del comune nemico Assad. finendo spesso per combattere i curdi considerati troppo indipendenti (non dimentichiamo che la prima resistenza di Kobane fu proprio contro questi “ribelli moderati”); attualmente la critica più forte, alimentata anche da giornali come Repubblica e Il Corriere della Sera, sarebbe la presunta alleanza tra Pyd, aviazione russa e truppe lealiste sul fronte meridionale.
Chiariamoci: di guerra si sta parlando, potrà piacere o meno, ma il governo autonomo di Rojava non ha mai dichiarato alleanze con nessuna delle grandi potenze, nè tantomeno ha dimenticato la politica anti-curda perseguita anche dal governo siriano in passato o le attuali atrocità commesse dalle truppe lealiste contro i civili; ha piuttosto optato per coordinamenti tattici, giocando su più tavoli, in modo da usufruire dell’aviazione russa e americana per liberare definitivamente il Rojava e cacciare i nemici alle porte e contemporaneamente tenere in scacco la Turchia, al momento impossibilitata ad agire direttamente sul campo senza causare una reazione sia tra i nemici che tra gli alleati. Le milizie Ypj/Ypg (e anche i guerriglieri del Pkk, sebbene non lo si dica) sono di fatto l’unica fanteria organizzata e motivata che combatte contro Daesh. Tenendosi ai margini della guerra civile siriana, perseguendo l’obiettivo non di uno stato nazionale su base etnica, escludente, ma il progetto democratico di confederazione e convivenza tra i molti popoli del Medio Oriente. E a chi ricorda le vittime civili di Assad e dei bombardamenti russi (ma dovremmo ricordare anche di quelli americani, non vi pare?), rispondiamo che gli unici ad accogliere i profughi degli opposti massacri sono proprio quei cantoni del Rojava e quelle municipalità curde in Turchia, che mettono a disposizione tutte le risorse di tutte le loro comunità: il fiore del confederalismo democratico viene piantato ovunque e senza discriminazioni, anche nei campi profughi autorganizzati.
Le regole della guerra asimmetrica sono impietose e anche le rivoluzioni devono farci i conti, senza che questo significhi compiere atrocità o snaturare il proprio progetto rivoluzionario, come invece vorrebbero molto oppositori e critici del confederalismo democratico.
Osservate dal punto di vista curdo, quindi, l’intreccio di guerra interna e guerre esterne rende molto complesso il contesto e delicate le scelte da compiere. Da parte nostra ci poniamo alcune domande: che conseguenze avrà l’attentato di Ankara rivendicato dai Tak? Ha avuto un senso politico o si è trattato di una pur giusta risposta “di pancia”? Non acquista un significato diverso piuttosto rispondere con forza nelle proprie terre e nelle proprie città, tra il popolo che appoggia la resistenza al fascismo turco, piuttosto che alimentare il consenso al nazionalismo neo-ottomano dell’Akp? Come ripartire, come ricostruire, in Bakur dopo i massacri di questi mesi? Come reagiranno le forze dell’auto-difesa? Il Pkk che ruolo deciderà di assumere: quello di “contenitore” della violenza militare turca o risponderà apertamente con l’insurrezione? E in Siria quanto durerà il precario equilibrio che sta garantendo così tanti successi militari e politici al Rojava? Per quanto tempo Ankara rispetterà le regole non scritte che le stanno imponendo il non intervento diretto contro Ypj/Ypg? E poi un’altra questione ignorata ma che potrebbe invece essere decisiva: quanta pressione possono reggere i confini in frantumi della regione di fronte ad una crisi migratoria senza precedenti? E quanto possono sopportare le masse di profughi in Turchia, Iraq e Siria prima di far definitivamente esplodere questa crisi, con tutto il suo carico umano e sociale?
Tante domande, futuri incerti e imperfetti che si profilano. La sfida per noi è riuscire a definire, in mezzo al caos della guerra, dei conflitti e delle relazioni internazionali, il fiore della rivoluzione che nonostante tutto e ostinatamente viene portato avanti e per cui si continua a morire ma anche e soprattutto a vivere. Nel nostro piccolo, vogliamo continuare a farlo perchè è nel Rojava che vediamo l’unica possibile opposizione alla guerra totale, ai nuovi nazionalismi, all’isteria collettiva che sta prendendo piede nell’ipocrita e pacificato occidente