I tre colpi di Stato e la fondazione del Pkk
Il periodo successivo alla morte di Ataturk (1937), conosce una decisa virata anticomunista dello Stato; il contesto bipolare che si determina nel secondo dopoguerra rende la Turchia uno degli avamposti chiave della Nato: inizia qui la formazione di quel deep State formato da strutture paramilitari affiliate all’Alleanza Atlantica e servizi segreti che, accanto all’esercito, costituirà fino all’era Erdogan uno dei poli di potere autonomo e non vincolati.
Tra gli anni Quaranta e i Sessanta si intensifica il processo di turchizzazione del paese. Omogeneità etnico-culturale e integrità territoriale diventano un’ossessione per i governi. Si cerca di raggiungerla tramite: discriminazione socioeconomica; militarizzazione delle regioni orientali; leggi liberticide che proibiscono ogni attività giudicata dannosa per “l’unità nazionale e l’integrità territoriale della repubblica turca” o che mirano a distruggere “l’unità etnica della nazione turca e a sviluppare una cultura diversa dalla cultura turca in Turchia” (M. Galletti, 2004).
L’opposizione curda è limitata a pochi nuclei guerriglieri isolati sulle montagne, che però instaurano relazioni continuative con i più sviluppati movimenti curdi in Iran e Iraq; questo è il principale motivo per cui i tre paesi firmano nel 1955 il “patto di Baghdad”, sul controllo delle frontiere.
Dagli anni Sessanta il paese è caratterizzato da un intenso periodo di mobilitazioni sociali e sindacali da una parte, manovre militari e degli apparati di sicurezza dall’altro, che sfociano in tre colpi di Stato:
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Il 27 maggio 1960 si verifica il primo: supportato dall’intelligencija e dalla borghesia industriale dell’ovest, impone misure di modernizzazione economica e politica del paese per un anno e mezzo; industrializzazione e liberalismo politico “forzati” paradossalmente allargano la struttura delle opportunità politiche per la sinistra anti-kemalista (sebbene il Partito comunista sia fuorilegge). L’estesa mobilitazione sociale permette la diffusione della cultura curda (tramite riviste bilingue e musica): si forma un nuovo coordinamento tra movimento curdo e forze progressiste turche, che renderà il diritto delle minoranze interne a disporre di sé stesse una parola d’ordine di tutto il movimento rivoluzionario turco.
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Il 12 marzo 1971 avviene il secondo golpe, preceduto dalla politica del terrore chiamata “Operazioni di commando nell’est”, il cui duplice obiettivo è colpire il movimento curdo e provocare una rivolta che faccia da pretesto per la repressione dei curdi e delle sinistre su vasta scala. Tribunali speciali emettono decine di sentenze capitali e condanne contro militanti rivoluzionari, leader sindacali, esponenti del nazionalismo curdo; la legge marziale è imposta in tutto il paese. Solo alla fine del ’73 viene restaurata una democrazia protetta.
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L’instabilità interna, ripresa in breve a metà del decennio, porta ad un nuovo golpe il 12 settembre 1980: sarà il regime militare più duro e brutale di quelli conosciuti in età liberale. L’obiettivo è eliminare, fisicamente e col terrore, i principali elementi di instabilità e sarà in parte raggiunto: la smobilitazione causata dalla guerra sporca durerà a lungo e nell’83, quando i militari restituiscono il potere formale ai civili, il paese è effettivamente stabilizzato.
A metà anni Settanta, in Bakur fioriscono numerosi partiti e organizzazioni sindacali curde autonome: il quindicennio precedente di lavoro politico con la sinistra turca ha dato i suoi frutti e i curdi sembrano aver acquisito, nonostante le pesanti restrizioni legali, la capacità di applicare forme e repertori del conflitto tipici dei movimenti sociali e della lotta partitica. La repressione della giunta militare dell’80 ha un effetto opposto su una parte del movimento curdo; in particolare una piccola organizzazione marxista-leninista, fondata nel 1978, sceglie di rompere con la precedente strategia partitica e movimentista per abbracciare invece la lotta armata: il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk).