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Voti, armi, diplomazia. L’interludio mediorientale e la questione curda

Con la sconfitta di daesh a Mosul ormai due mesi fa e la ormai quasi definitiva liberazione di Raqqa di questi giorni (solo poche strade, dove infuriano i combattimenti, rimangono ormai nelle mani dei miliziani Isis), la presenza dello Stato Islamico nel Siraq sembra ormai solo questione di tempo. La permanenza o meno di ultime porzioni di territorio sotto il suo controllo diventa, da ora in poi, solo una questione di opportunità tattica da parte degli attori che andranno a confrontarsi direttamente nella seconda fase della crisi mediorientale.
Nell’ultima settimana una serie di eventi, di natura diversa, hanno però dato la cifra degli scontri in atto, i cui esiti potranno accelerare l’inizio della “vera guerra”, quella successiva alla sconfitta della “trappola Daesh” : la già citata liberazione di Raqqa, in Siria; il confronto militare-politico tra le Forze democratiche siriane (SDF) e l’esercito arabo siriano (SAA) di Assad nella zona petrolifera di Deir Ez-zor, contestualmente alla campagna contro daesh; il voto storico nelle Comuni della Federazione della Siria del Nord; la proroga di un anno, votata sabato 23 settembre dal parlamento turco, delle missioni militari in Siria e Iraq delle truppe di Ankara già presenti sul territorio; il referendum (consultivo) di Erbil sull’indipendenza del Kurdistan iracheno da Baghdad, voluto da Massoud Barzani; la corsa agli armamenti avviata da Teheran, in seguito alla rivolta in corso nel Rojhalat (Kurdistan iraniano) e alle tensioni proprio con Erbil riguardo la città di Kirkuk, in Iraq.
La questione curda attraversa tutti questi eventi e si inserisce nei molti conflitti che la regione sta vivendo. Lo fa, però, presentando due prospettive profondamente diverse, che ci sembra utile vedere e conoscere, anche per evitare di cadere nell’errore che vuole il popolo curdo un blocco monolitico. Sul fronte iracheno, infatti, il contesto è più complicato e non riducibile all’aspirazione curda all’indipendenza, dove questa si intreccia con i giochi di potere interni al Governo regionale del Kurdistan iracheno (KRG) e tra questo e il governo centrale di Baghdad; incontrandosi a sua volta con la storica opposizione della Turchia a qualsiasi autonomia curda nella regione (sia pure di un suo alleato e collaboratore come è il KRG) e con l’inimicizia tra curdo-iracheni e sciiti, facenti capo a Teheran.


L’arma del nazionalismo, ne sappiamo qualcosa anche qua in Europa, è molto utile da giocarsi nei momenti di crisi di consenso e come giustificazione di torsioni autoritarie. Lo stesso vale per il clan Barzani e la sua asabiya politico-militare, il KDP (Partito democratico del Kurdistan): a mandato scaduto, sono due anni che di fatto governa senza parlamento con un sistema da autocrazia militare, in un crescendo di tensioni con l’altra organizzazione curdo-irachena maggioritaria nel sud del paese, il PUK (Unione patriottica del Kurdistan) del clan Talabani. Il referendum sull’indipendenza e la campagna nazionalista e identitaria giocata da Barzani appare sempre più interpretabile come lo strumento propagandistico che ha permesso di rilanciare la propria immagine interna, ricercando l’unità della popolazione e spuntando le armi al PUK, dopo gli ultimi ingloriosi tre anni di guerra all’Isis e la stretta collaborazione economico-militare avviata con Erdogan (che ha comportato una lotta senza quartiere al PKK, di cui Barzani è sempre stato storico avversario), alla faccia di ogni fratellanza con la diaspora curda.
Non solo: l’unità nazionale curdo-irachena è utile anche per rilanciare una politica estera di offensiva nei confronti anzitutto di Baghdad, ma anche verso l’Iran e le milizie sciite presenti sul suolo iracheno. Il petrolio è la chiave di tutto. Dal 2014, approfittando della disgregazione dello Stato in seguito alla travolgente avanzata di daesh (con cui Erbil pare aver stretto più di un accordo, nella fase iniziale dell’avanzata, di spartizione in zone di influenza ), il KRG infatti gestisce direttamente il commercio dei suoi pozzi petroliferi (che raccolgono più del 50% dell’oro nero del paese), vendendolo in primo luogo alla Turchia; in secondo luogo, la rivendicazione di Erbil su zone multietniche del paese ai suoi confini, quella di Kirkuk su tutte , comprese nelle operazioni di voto per il referendum, nell’indifferenza o con la contrarietà della popolazione non curda, ha riacceso la tensione militare con formazioni armate sciite, anzitutto la temibile milizia filo-iraniana Hajdi Shabi (con cui già in passato ci sono stati scontri a fuoco intorno a Kirkuk).
Il referendum, dunque, appare come una scommessa da parte di un governo in crisi, forte solo della repressione militare, che aveva dovuto affrontare nel 2013-14 importanti proteste di piazza contro il clientelismo di Stato del KDP (e del PUK, a sud), fermatesi spontaneamente a causa dell’unità di emergenza imposta dall’avanzata di daesh. Ma il referendum si inserisce anche nelle fratture interne al movimento di liberazione curdo e si collega a prospettive politiche di più ampio respiro, tra la sua destra etno-nazionalista e la sinistra federalista e democratica . Considerando la principale organizzazione della sinistra, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), nonostante la sua svolta anti-statalista, ammette il diritto all’autodeterminazione del popolo curdo in ognuno dei quattro Stati della diaspora, ma riconosce anche la strumentalità del referendum in questione e i rischi anzitutto per la popolazione nella costituzione di uno Stato ad opera di un clan militar-clientelare com’è quello del KRG. Mentre il Partito dell’unione democratica (PYD) curdo-siriano, sostenitore integrale della linea anti-nazionalista, ribadisce che nel suo programma politico, né in quello delle amministrazioni autonome-democratiche della Federazione della Siria del Nord, vi è la costituzione di uno Stato etnico curdo separato.
Basti pensare al senso e al significato opposto attribuito alle elezioni svoltesi in 3700 Comuni nelle regioni di Firat, Afrin e Cizre: nessuna caratterizzazione etnica, grazie al gigantesco lavoro politico-culturale avviata dalla rivoluzione del luglio 2012, con un’altissima partecipazione di donne e non curdi, niente rappresentanza per partito o per etnia ma in quanto membri della Comune, giunte dopo lunghe assemblee di base. “Una democrazia non per lo Stato, ma per la società” . Il modello confederale che il movimento curdo e i suoi alleati arabi, assiri, armeni, caldei, cristiani si augurano di riuscire ad applicare in una futura Siria federale e a democrazia radicale; lo stesso obiettivo che ormai si pone il PKK per quanto riguarda la Turchia: una rivoluzione confederale che riguardi tutto il paese e non solo le regioni del sud-est. Quella che può apparire come una frase di principio non può essere appieno compresa senza considerare il contesto statale medio-orientale, dove gli Stati si sono realizzati, e sono stati retti nel corso del Novecento, secondo una logica colonialista, tramite il controllo dispotico di minoranze in aperta opposizione alle loro società.
Da questo punto di vista è interessante anche rilevare l’appello lanciato da Shengal, dove gli yezidi hanno dichiarato ad agosto l’Autonomia democratica dopo aver dato vita alle Comuni e costituito le YBS (Unità di difesa di Shengal, che hanno partecipato attivamente alla liberazione di Raqqa): “non andate a votare al referendum del 25 settembre, noi non siamo parte del clan Barzani” . I curdi yezidi hanno subìto le conseguenze più gravi e drammatiche della vigliaccheria dei peshmerga KDP, quando nell’agosto 2014 furono lasciati nelle mani dell’Isis, subendo un vero e proprio genocidio; e, ora, conoscono sulla loro pelle cosa significhi l’autocrazia di Barzani, circondati dalle sue milizie e avendo subito alcune perdite nei mesi scorsi, in seguito a scontri armati tra YBS e peshmerga.


Questo non significa negare il valore che comunque tutto il popolo curdo riconosce al sogno dell’indipendenza dopo almeno un secolo di oppressione e annientamento fisico e culturale: i festeggiamenti anche in molte città del Rojava (la cui autonomia è stata paradossalmente avversata militarmente in questi anni dal KRG), così come nel Bakur (Kurdistan turco) e nel Rojhalat, ci ricorda il peso politico determinante che il voto per l’indipendenza da Baghdad, seppur consultivo e voluto dalla destra curda, può avere anche in quei paesi dove la popolazione curda deve difendersi da apartheid e annientamento, e dove più forti sono le organizzazioni della sinistra.
La questione, però, non è più l’indipendenza del Kurdistan. Proprio il movimento di liberazione curdo ha dato un nuovo storico senso al principio dell’autodeterminazione dei popoli, non più riducibile alla costituzione di entità statali chiuse. La campagna delle Forze democratiche siriane in zone non a maggioranza curda, come Raqqa e Deir Ez-Zor, non ha un significato espansionista: necessarie anzitutto alla sicurezza militare (contro Isis) della Federazione, spinte e volute dalle componenti non curde delle SDF (che hanno costituito la maggioranza dei combattenti impegnati a Raqqa), queste rappresentano un tentativo di consolidamento delle Amministrazioni autonome-democratiche al di fuori del Rojava strettamente inteso. Tuttavia la questione curda si pone al centro delle scelte degli attori regionali e delle grandi potenze nel prossimo futuro, coinvolgendo inevitabilmente gli altri conflitti in corso in Medio Oriente. E le sue diverse prospettive aprono a loro volta scenari differenti per la regione: a seconda che si punti a una enclave nazionale, che rischia di diventare un’altra asabiya tra le molte asabiya, oppure al definitivo superamento di confini e nazionalismi fittizi e nocivi in nome dell’uguaglianza sociale, etnica e di genere.