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Le zone liberate e il giorno nero del Kurdistan

Arrivati a Cizira Botan (Cizre in turco) ci si presentano subito agli occhi i segni dei nove giorni di coprifuoco che un mese fa hanno insanguinato la città situata sul confine siriano. Cizira si era dichiarata “territorio autonomo” tre mesi prima dell’assedio, in particolare quattro quartieri hanno iniziato a praticare in modo radicale i principi dell’autodifesa e dell’autogoverno tramite consigli di quartiere e assemblee sovrane degli abitanti.

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L’attacco, iniziato il 6 settembre, ha visto il blocco completo della città da parte dell’esercito il quale, tramite armi pesanti, cecchini e brutalità contro la popolazione civile, ha ucciso ventitrè persone nel tentativo di porre fine all’esperienza delle le zone liberate. Non riuscendoci, dopo aver rimosso la municipalità (Hdp) e arrestato la co-sindaco (Bdp, partito regionale collegato al primo), dietro pressioni esterne ha posto fine all’assedio, senza però rinunciare al commissariamento né alle minacce militari.

Accolti fin da subito con grande fraternità, siamo stati ospitati presso il centro culturale di Judi (una delle quattro zone liberate); da qui, in mattinata, ci siamo diretti al palazzo dell’Hdp e del Bdp, dove siamo stati ricevuti dai rappresentati della municipalità di Cizira. In un secondo momento siamo stati accompagnati in uno dei quartieri più colpiti dal coprifuoco: i bambini si sono riuniti attorno a noi mentre gli abitanti hanno ripercorso con rabbia le brutalità subite e le storie dei diciannove morti durante il coprifuoco, donne e uomini di età compresa tra nove mesi e settantacinque anni, terroristi secondo lo stato. Il racconto è proseguito sulle strade dove i cecchini turchi miravano anzitutto ai bambini, nelle case colpite dai proiettili, tra le barricate di sacchi, copertoni e lamiera, che nonostante tutto i militari non sono riusciti ad abbattere. Il nostro giro è stato accompagnato da un lungo e spontaneo corteo di giovani, anziani e molti bambini, questi ultimi molto divertiti dalla presenza di noi internazionali.

Nella mattinata l’aria della città ha cominciato ad appesantirsi, a causa di quelli che abbiamo presto riconosciuto come gas lacrimogeni. Oggi, 9 ottobre, è il Giorno Nero per il Kurdistan: cade infatti l’anniversario dell’estradazione di Abdullah Ocalan in Turchia e del successivo incarceramento. In tutte le città l’Hdp ha proclamato uno sciopero generale e la popolazione ha fermato il lavoro e tutte le attività. Scontri si sono verificati in molte località, tra cui la zona liberata di Amed e Cizira, completamente bloccata.

Usciti dalla città, ci siamo diretti al centro culturale Mitamni di Nusaybin, dove il coprifuoco è stato revocato solo due giorni fa. Lì abbiamo incontrato i ragazzi e le ragazze che gestiscono le attività del centro: biblioteca, teatro, sala conferenze e assemblee, corsi musicali. Molto forte è la caratterizzazione femminile: fin dalla strada si vedono le gigantografie di diverse generazioni di militanti curde ed esponenti del movimento di liberazione delle donne. Anche qui come ad Amed, il Mitamni è un luogo di elaborazione e costruzione del Confederalismo democratico. Raccontandoci del recente coprifuoco, i ragazzi del centro ci dicono che le zone liberate presenti anche in questa città hanno resistito e lo Stato turco ha fallito il suo obiettivo, accompagnando invece la comunità locale ad una maggiore determinazione e consapevolezza di sè.

Da Nusaybin è possibile scorgere a poche centinaia di metri Qamishlo: il confine divide infatti senza razionalità né umanità un’unica città, separando forzatamente quella che un tempo era la medesima popolazione. Guardando la vecchia dogana, ormai chiusa da quando le Unità di difesa del Popolo hanno preso il controllo della città curdo-siriana (l’unico grosso centro sul confine mai caduto nelle mani di Daesh), una ragazza del Mitamni chiariscce: “Noi e loro siamo la stessa cosa”.

Rojava Resiste. Tra Cizira e Nusaybin, 9 ottobre sera.

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Tra campi profughi e frontiere.

Lasciandoci alle spalle il nucleo urbano di Amed, la vista che ci si propone è davvero singolare: da una parte la città antica e il ponte vecchio col loro carico di storia; dall’altra lo scempio lungo le periferie dei paesi e villaggi che si susseguono lungo la statale per Cizira. Il nostro tragitto si affaccia su un imponente processo di speculazione edilizia: ecomostri edificati sulle colline, palazzi mai conclusi a bordo strada, cave che cancellano montagne e discariche a cielo aperto. Una chiara linea di devastazione ambientale e territoriale del governo turco, che non ha riguardo per la natura e la storia di una civiltà sorta migliaia di anni fa.

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Con il contatto che ci accompagnerà nei prossimi giorni, ci spostiamo di pochi chilometri dalla città,

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Cantastorie di resistenza

Un aspetto centrale del più ampio progetto di trasformazione che oggi definiamo Confederalismo democratico è rappresentato dalla resistenza culturale. Per i curdi la parola “cultura” non indica solamente la tradizione in senso stretto ma comprende la varietà artistica, espressiva e di modi di vita dei popoli dell’area che ancora oggi chiamano Mesopotamia; in secondo luogo, non rappresenta un’attività neutra e slegata dal contesto storico.
Fin dalla sua nascita, lo Stato turco ha avuto come pilastro l’assimilazione forzata delle minoranze etniche, tentando di controllarne la lingua e le usanze, fino al loro sradicamento. Tutti i popoli che si sono trovati forzatamente a vivere in Turchia, dal 1923 hanno subìto la violenza culturale e militare del nazionalismo di Stato.

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In particolare, grazie alla tradizione musicale dei Deng Bej, ossia i cantastorie,

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Sur, dentro le mura di Amed

Il popolo curdo, nei decenni di resistenza alla dominazione turca, ha dovuto reinventare più volte la propria organizzazione per far fronte ad una repressione feroce e capillare: in questo senso, quando parliamo dei centri culturali delle municipalità, non intendiamo solo un luogo ricreativo ma anche di aggregazione e incontro.

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Il Dicle Firat (Tigri Eufrate) di Amed (l’antico nome curdo con cui ancora oggi la popolazione chiama Diyarbakir) è un luogo dove è possibile bere una o più tazze di chai e caffé curdo, ascoltare musica locale, entrare in contatto con le politiche culturali della comunità ma anche sentirsi liberi di discutere dei conflitti che attraversano la regione. Dal Dicle Firat passano esponenti delle municipalità curde, delle associazioni culturali e attivisti di diverse organizzazioni.

Il centro culturale è situato nel distretto di Sur, storica roccaforte della resistenza curda, un tempo divisa dal resto della città da un’imponente e antichissima cinta muraria. Solo negli anni ’40 del Novecento, le mura furono parzialmente abbattute per controllare il quartiere e potervi accedere con mezzi militari . Negli ultimi due mesi, con la ripresa dell’aggressione turca, la zona è ritornata teatro di continui scontri tra la popolazione e le forze di sicurezza di Ankara. In particolare il quartiere di Hasirli (circa 100.000 abitanti) è stato dichiarato territorio liberato, secondo i principi del Confederalismo Democratico, diventando di fatto inaccessibile ad esercito e polizia, che periodicamente tentano di penetrare con l’utilizzo di armi e mezzi pesanti, colpendo in maniera indiscriminata la popolazione civile, in particolare i bambini.

Proprio per questi motivi nelle ultime settimane più volte l’autorità centrale ha imposto il coprifuoco all’intera zona di Sur, impedendo gli spostamenti,  bloccando le utenze (acqua e elettricità) e rendendo sostanzialmente impossibili le comunicazioni.

Dopo una notte di riposo forzato, domani il nostro Rouge inizierà la realizzazione di un murales al centro Dicle Firat in collaborazione con un’artista locale, e, in contemporanea, effettueremo una serie di incontri e interviste con gli esponenti del centro, i cantastorie tradizionali Deng Bej, ed esponenti del Mesopotamia Ecology Movement.

Stay tuned!

Rojava Resiste, Amed, 6 ottobre sera